L’ex difensore etneo Alessandro Potenza torna sull’esperienza vissuta in rossazzurro, in particolare lo storico 3-1 inflitto all’Inter di Mourinho con Mihajlovic seduto sulla panchina catanese e l’anima argentina del Catania di allora. Queste le sue parole ai microfoni de ilposticipo.it:
“Catania? È stato speciale. Ci ho giocato per quattro anni e mezzo. In Sicilia ho conosciuto amici diventati fratelli. Sono legato a Firenze e Catania: sono state le città in cui ho sognato come facevo quando ero bambino, me le porto nel cuore. Professionalmente Catania mi ha dato tantissimo: lottavamo per obiettivi diversi. Nell’anno con Montella c’è stata una svolta dal punto di vista del gioco e della consapevolezza. Poi siamo arrivati ottavi in Serie A con Maran, io però mi ero rotto il ginocchio e purtroppo ho giocato poco.
“La vittoria sull’Inter? Abbiamo festeggiato per tre giorni. Quel giorno ho capito che avremmo vinto già nello spogliatoio dopo l’incredibile discorso pre-partita di Mihajlovic. All’Inter c’erano il suo “fratello minore” Stankovic e molti suoi ex compagni. Sinisa ci aveva detto di non salutare nessuno all’ingresso in campo. Noi eravamo pieni di argentini, all’Inter ce ne erano parecchi. Il mister non voleva che facessimo caciara prima della partita. Ci aveva fatto capire che quella sera, sportivamente parlando, si andava in guerra. Mihajlovic ha preparato quella gara come se fosse una finale. Poi l’espulsione di Muntari ci ha spianato la strada”.
“Simeone? Il Cholo è stato pochissimo tempo a Catania. Io sono stato infortunato per quattro mesi e l’ho vissuto poco. Abbiamo raggiunto la salvezza un paio di giornate prima della fine del campionato. Era arrivato con un’idea rivoluzionaria, voleva che giocassimo tutti all’attacco, poi negli anni ha cambiato idea. L‘anima argentina di Catania? Lo Monaco era bravo a scovare argentini dall’ingaggio basso all’altezza dei calciatori medi della nostra Serie A. Negli anni precedenti era stato fatto un lavoro importante sullo zoccolo duro degli italiani. Quando eravamo quindici contro dieci non era semplice. Gli argentini cominciano a fare gruppo e diventano spigolosi. Noi eravamo uomini della società, quando si perdeva mi portavo la sconfitta a casa e ci pensavo per tutta la settimana. Ricordo Ciro Capuano, Nicola Legrottaglie e lo stesso Beppe Mascara, un ragazzo che ci metteva spesso la faccia. Eravamo da esempio, indottrinavamo i più giovani e i nuovi arrivati. Chi veniva a Catania doveva adeguarsi alle nostre regole di comportamento e di sacrificio”.
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