Dario Marcolin a tutto campo sul suo modo d’intendere il calcio
Interessante intervista rilasciata qualche anno fa dall’attuale allenatore del Catania Dario Marcolin. Curiose riflessioni sul suo modo d’intendere il calcio nel contesto di un gruppo di lavoro. Riportiamo le parti salienti dell’intervista di Marcolin ai microfoni della rivista Il Calcio Illustrato:
“Cosa mi ha lasciato l’esperienza da collaboratore tecnico? Tantissimo nella comprensione di come gestire i gruppi e il lavoro sul campo. C’è uno stacco importante, quasi traumatico, da quando si è giocatore a quando si diventa allenatore. Quel lasso di tempo può essere messo a frutto lavorando al fianco di qualcuno. Le cose cambiano radicalmente, perciò le ultime sei stagioni mi hanno dato molto e mi hanno fatto crescere. Ho “rubato” qualcosa a tutti: ho acquisito conoscenze, mi sono misurato con chi è più bravo a gestire i campioni e chi i giovani. In quelle situazioni ti chiedi cosa avresti fatto tu. Hai sicuramente un osservatorio privilegiato”.
“Ho imparato a dare molta importanza ai suggerimenti che ricevo: chiedo ai miei collaboratori cosa hanno visto, i loro pensieri, gli accorgimenti, le opinioni. Proprio come hanno fatto con me. Se lo staff è molto attivo si traggono dei grossi vantaggi. Io ascolto e tengo in grande considerazione i contributi di idee che mi vengono dati. Ricordo ancora quando Mancini all’Inter ci incontrava la sera prima della partita in camera sua e chiedeva pareri anche sui singoli giocatori. è il confronto che fa la differenza. Si ascoltano tutti per mettere assieme maggiori elementi possibili, poi si fa la sintesi e un allenatore prende le decisioni compiendo le scelte che ritiene più opportune. I condizionamenti non ci sono, c’è invece la volontà di unire e analizzare i vari punti di vista”.
“Se c’è uno spirito di squadra le cose funzionano meglio, si tende a dare di più e si ottiene di più. Lavorare in gruppo è il massimo. Una volta gli allenatori erano soli, si prendevano tutto sulle proprie spalle. Penso che otto occhi vedano meglio di due, e dunque ben venga la possibilità di confrontarsi per un obiettivo comune in un percorso di lavoro condiviso. Sono diventato un allenatore imparando a fare il vice. Da giocatore ho visto tanto, ma quando si passa dall’altra parte e si sta al fianco di qualcuno si apprende tanto di più, specie se hai di fronte qualcuno di personalità. Oggi queste considerazioni mi accompagnano nell’incarico che ho assunto”.
“Il passaggio alla responsabilità diretta di una squadra come è stato? Direi un fatto naturale, cioè la logica conseguenza considerando il tipo di percorso affrontato. A 35 anni già facevo il vice e dunque ho avuto l’opportunità di entrare in punta di piedi. Ho fatto molta gavetta e con il passare del tempo mi è sembrato di avere sempre fatto l’allenatore. Anche per questo, per esempio, ho provato emozioni minori nella serata con il Verona al “Braglia”, alla mia prima in Serie B. Mi sono sorpreso della naturalezza con la quale mi sentivo nel ruolo”.
“Cosa ritengo prioritario nella gestione dei giocatori? Non transigo sul lavoro. Se c’è corrispondenza da parte dei ragazzi nell’impegnarsi seriamente, allora sono pronto a fare delle concessioni. Ma sul campo pretendo il massimo. Se un giocatore ha dei problemi mi trova pronto a dargli una mano, se però si allena male mi trova intransigente e duro. è il lavoro che determina la prestazione e il risultato. Per me è basilare avere una cultura del lavoro, e ai giocatori lo faccio capire chiaramente”.
“A me piace parlare molto con i ragazzi. Lo ritengo un elemento prioritario per stimolare, farsi capire al meglio, raccogliere segnali. Il dialogo pesa per un 70 per cento. Il resto, altrettanto importante, lo lascio all’attività sul campo. Nei confronti di un giocatore cerco di essere sempre molto attento e di capire ciò che si vede e non si vede. Ti accorgi in allenamento da quanto si applica e rende. Da lì capisci cosa ti può dare in quel momento.
“La mia idea di calcio? Mi piace il calcio moderno, dove una squadra ha un vestito per ogni occasione. La duttilità è un valore aggiunto: chiedo al gruppo di saper fare tutto. Negli anni passati si guardava alle singole situazioni, spesso divise tra loro. Oggi si parte dal cercare almeno la sufficienza su tutto. Alla base c’è il fatto che si deve saper proporre gioco, e quindi serve la capacità di riuscire a leggere la partita. Per ottenere il massimo è necessario il 100 per cento nella fase offensiva e il 100 per cento in quella difensiva: con l’una senza l’altra, e senza i fondamentali rispettati, non si va da nessuna parte”.